Homo erectusHomo erectus aveva la taglia e la struttura corporea dell’uomo moderno, ma l’architettura del capo rimaneva diversa. Una robusta visiera cava sormontava gli occhi, la fronte era sfuggente, il prognatismo rimaneva forte. La capacità del cranio che negli esemplari più antichi si aggirava sugli 800 ml, nel giro di qualche centinaia di migliaia di anni ha raggiunto i 1000 ml, e poi, in alcuni esemplari, i 1200 ml, che è il valore modale per le popolazioni umane attuali di taglia media. I reperti portati alla luce dagli antropologi ci dicono che viveva in bivacchi o in caverne, usava il fuoco e fabbricava strumenti di pietra. Non ci dicono se intrecciava fibre vegetali per fare funi, canestri e stuoie, se conciava le pelli, se fabbricava capanne e zattere, poiché questo è materiale che non si conserva. Di solito non si prendono in considerazione le attività che non sono obiettivamente documentate ma che possono essere state parte importante di una cultura, intesa come somma di conoscenze e strumenti che permettono ad una popolazione di sopravvivere e di fiorire. Poco dopo la comparsa si è spinto verso l’oriente traversando ampi bracci di mare e grandi fiumi, ed è tornato a vivere nella foresta pluviale abbandonata da lungo tempo. Trascurando questi aspetti si giunge a negare che Homo erectus godesse dei doni della parola e della coscienza che si usa concedere solo a Homo sapiens. Gli ominidi si espandono fuori dall'AfricaGli Australopiteci hanno popolato – per quanto oggi risulta - la metà occidentale dell’Africa subsahariana, dal lago Ciad fino al Transvaal. Homo ergaster e Homo erectus, non sempre distinguibili, si sono spinti molto oltre. Hanno raggiunto l’Africa settentrionale – il Maghreb è ricco di testimonianze- e di lì, seguendo in certo modo l’itinerario dei Ramapitecini, hanno raggiunto il Caucaso e l’Indocina e di lì l’Indonesia e la Cina centrale. Non lontano dall’attuale Pechino, Homo erectus ha dimorato nelle grotte del Chu Ku Tien durante circa duecentomila anni, fino a mezzo milione di anni fa. (Peking man). All’inizio del Pleistocene, attorno a due milioni di anni fa o poco più, hanno vissuto in Africa orientale, e poi altrove, ominidi alquanto diversi dagli Australopitecini. Tali modifiche sono correlate a un progresso della lavorazione della pietra, all’uso del fuoco, e, probabilmente, al nutrirsi meno di carogne e più di prede cacciate attivamente. In ogni caso, è da credere che il modo di vivere di questi nostri antenati permettesse allora una dieta più ricca e variata preludio a una spettacolare crescita demografica e alla migrazione in luoghi diversi e lontani. In base ai loro resti fossili i paleoantropologi hanno descritto un certo numero di specie, anzi, un ‘cespuglio’ di specie che sono state attribuite o dubitativamente o sicuramente al genere Homo. Tra i primi ominidi ritroviamo Homo habilis di cui il fossile KNM-ER 1813: scoperto da Kamoya Kimeu nel 1973 a Koobi Fora, nei pressi del lago Turkana, in Kenya. Datato 1,65 Ma. Alcuni nomi dati a queste specie sono indicativi: Homo faber, cioè uomo artefice; Homo ergaster, cioè uomo lavoratore; Homo erectus cioè uomo a stazione eretta. I reperti fossili dell’Africa orientale e meridionale ci dicono che tra 1 e 4 milioni di anni fa vissero più specie di ominidi contemporaneamente. Anche nel nostro passato più recente ci sono prove che testimoniano la presenza di più specie nello stesso periodo (Homo floresiensis). La diaspora di Homo erectusNell'anno 2000 giunse del tutto inaspettata la notizia che in Georgia presso i monti del Caucaso era stata scoperta una popolazione fossile di Ominidi molto simili ad Homo habilis africano. Veniva così individuato uno dei primi passi della diaspora che condurrà questi nostri antenati a popolare l'intera Eurasia (nel 2006 è comparsa una seconda e più ricca documentazione su questa prima variante di Homo erectus). In Spagna i ricercatori avevano trovato tracce sicure di antichi hominini, tra le quali i resti della macellazione di un elefante intrappolato nelle sabbie mobili, vicenda di cui è stato detto, tuttavia gli autori di quel lavoro continuavano a rimanere sconosciuti: solo nel 2013 è finalmente giunta la notizia del loro reperimento nella grotta di Sima dos Huesos (Crepaccio delle ossa) nella Spagna settentrionale. Questo reperimento non giungeva inatteso, ma era più abbondante del previsto, e permetteva uno studio comparativo redditizio ed anche, entro certi limiti, uno studio statistico: la statistica è il più importante strumento per indagare sulla struttura di una popolazione. Gli hominini di questa grotta sono stati identificati e attribuiti alla ̔specieʼ (provvisoria) heidelbergensis pubblicata nel 1907, in base al reperto di una mandibola fossile provvista dei suoi denti, reperto che al profano può apparire insignificante, ma non c'è. Homo heidelbergensis è stato rinvenuto in altri luoghi della penisola iberica, in Italia e anche in Gran Bretagna (oltre che in Germania), ma è collegato anche con reperti africani (tra i quali un cranio proveniente dalla Rhodesia, oggi Zimbabwe, perfettamente conservativo). Una popolazione quindi che dall'Africa meridionale si è spinta fino al Maghreb e all'Europa settentrionale, e soprattutto una popolazione nella quale si riconosce con sicurezza la transizione di Homo erectus a Homo sapiens e, in modo meno preciso la derivazione da qui Homo habilis da Australopithecus robustus. Con il reperimento di questo materiale cadevano molte ipotesi avanzate in precedenza, mentre in cambio si aveva la sicura indicazione che la specie Homo erectus aveva migrato dagli altipiani del Sudafrica quasi due milioni di anni fa spingendosi sempre più a Nord fino a popolare l'Eurasia, incontrando durante il lungo esodo nuovi climi, nuovi ambienti e modificandosi in modo radicale nella ̔culturaʼ nei costumi. Lo studio delle irradiazioni di popolazioni di mammiferi, soprattutto di mammiferi ungulati ci ha insegnato varie che ci aiutano sulla nostra sintesi: quando una piccola frazione di una popolazione si distacca dal resto del nucleo centrale porta con sé solo una frazione delle varianti del patrimonio genetico della collettività. Tale fenomeno, piuttosto ovvio, ha ricevuto un nome: ̔deriva geneticaʼ. A causa della deriva genetica il gruppo di individui migranti è già potenzialmente diverso dal resto della popolazione originale e, col trascorrere del tempo, accumula attraverso l'adattamento ai nuovi ambienti, ulteriori varianti; se dal territorio raggiunto si irradiano in seguito altri gruppi di migranti. Se i nuovi territori raggiunti sono diversi da quelli incontrati in precedenza, la deriva genetica si ripete e si ripete l'acquisizione di ulteriori varianti genetiche. I nostri antenati lasciando gli altipiani dell'Africa meridionale ricchi di laghi e di fiumi hanno incontrato, procedendo verso Nord vaste zone steppiche e poi deserti assolati; procedendo oltre la fascia equatoriale e quella tropicale dove non esiste un preciso ciclo stagionale i migranti sono giunti in luoghi dove una stagione piovosa si alterna a una stagione secca. Quindi hanno incontrato la fascia a clima temperato, nella quale le stagioni sono quattro e d'inverno gli alberi si spogliano e non danno più frutti e molte possibili prede volano lontano mentre altre prede spariscono, e i predatori sono affamati. Per superare l'inverno occorre raccogliere e conservare provviste e gestirle in modo corretto. Bisogna trovare o foggiare recipienti adatti, proteggerli dai roditori, animali molto esperti nel raccogliere e conservare il cibo, ed evitare sprechi. Ottemperare a simili necessità e acquisire nuove abitudini: per quelle antiche popolazioni il mutuo aiuto è stata risorsa importante che implicava una reciproca intesa. Superare l'inverno, per una popolazione di Primati che trovano grande difficoltà per superare la barriera dei 40° Nord è stato ancor più impegnativo: creare ripari di pietre o di altro, trovare rifugio nelle caverne dopo averle rese inaccessibili ad altri inquilini, soprattutto agli orsi, non è sempre sufficiente: occorre proteggersi con le pellicce delle prede, staccando i residui di carne che possono imputridire con raschiatoi di pietre lavorate che si aggiungono al repertorio della cultura olduvaiana, ma non basta, occorre anche una concia rudimentale per impedire alle pellicce di seccarsi e mantenere la necessaria flessibilità. Gli Eschimesi, fino a ieri, provvedevano masticandole con cura, fino a consumarsi i denti, altrettanto facevano, si presume, le genti di Homo erectus. Ma sopraggiungeva il secondo periodo interglaciale, le pelli non bastavano e diveniva necessario riscaldarsi col fuoco, come facevano le popolazioni di Eschimesi e di Fuegini nella terra dei Fuochi. Il fuoco veniva acceso da chi era addetto a lavorare la selce, la cosìddetta ̔pietra focaiaʼ ed ancor oggi la dimora di una famiglia viene designata ̔focolareʼ. Chi sa usare il fuoco presto impara che l'argilla presso il fuoco si trasforma in terracotta e non tarda a costruire contenitori di terracotta. Raccogliere e ricostruire con la immaginazione la parabola attraverso la quale forme primitive hanno mutato i costumi e utilizzato nuovi manufatti, richiede alcune pagine, ma Homo erectus ha impiegato mezzo milione di anni per compiere questo lungo percorso, superando tante barriere ambientali. Questo lungo cammino ha trasformato la struttura fisica dell'uomo, il modo in cui si accresce dalla infanzia alla maturità, trasformando la propria mente e programmando il superamento di ulteriori confini. |
Reperti fossili di Homo habilis Reperti fossili di Homo erectus Chopper Olduvaiano |
La crescita delle dimensioni del cervello e il comportamentoL’aumento di dimensioni del cervello degli australopiteci è iniziato intorno a due milioni e mezzo di anni fa e in questo lasso di tempo la massa dell’organo si è triplicata negli ominidi attuali, i cetacei seguono a grande distanza. Il fenomeno per la sua rapidità e portata non trova confronti nel regno animale e il risultato sembra sia andato molto oltre le usuali necessità di una specie di primati. Diviene perciò interessante sondarne le cause. A tal fine la strada migliore è quella di tentare la ricostruzione dello scenario nel quale vivevano quelle antiche popolazioni e di considerare quali necessità esse dovevano fronteggiare E’ stato più volte e giustamente ripetuto che condurre vita gregaria fu necessario ai più antichi ominidi tornati a vivere al suolo per meglio difendersi e procurarsi il cibo. Simile stile di vita rese necessaria la divisione dei compiti e il comunicare con gli altri componenti del gruppo. Comunicare non vuol dire solo conversare, vuol dire servirsi di un repertorio di segnali che possono essere suoni più o meno articolati, ma anche gesti ed espressioni che coinvolgono i muscoli mimici del viso. I pongidi hanno un ricco repertorio mimico, ma gli uomini, spesso senza esserne consapevoli, l’hanno ancora più ricco, soprattutto nel gioco degli sguardi. Le palpebre dell’uomo hanno un disegno tale da lasciare scoperta una parte della sclera che è bianca, sì che la direzione dello sguardo viene prontamente individuata anche a distanza e nella penombra. L’intesa che nasce dallo scambio di sguardi è confermata dal sorriso che scopre il luccicare dei denti e risulta decisiva nell’eseguire un compito collettivo, anche molto complesso, A tutti è noto il disagio che nasce dal trattare con chi ha la rima palpebrale tanto ristretta da nascondere l’esatta posizione dell’iride e della pupilla, e dal trattare con chi nasconde gli occhi dietro lenti scure. Questo modo di comunicare, o un altro equivalente, non richiese presumibilmente uno sviluppo del cervello, ma contribuì di certo a ridurre la quota di comportamento istintivo e ad accrescere la quota di comportamento acquisito attraverso l’esperienza e meglio aderente alle particolari contingenze, e anche ad accrescere la capacità di memoria, poiché apprendere vuol dire ricordare. In questo caso il sistema nervoso è coinvolto in modo impegnativo. Nella cooperazione episodi del genere si sono ripetuti innumerevoli volte e altrettante volte il comportamento stereotipo ereditario –che non di rado è disgregante della comunità- ha ceduto di fronte al più efficiente comportamento governato dall’apprendimento. Infatti la riduzione dei timori e delle paure istintive ha accresciuto i rischi per i ‘cuccioli’ di cadere dall’alto, di annegare, di smarrirsi nei labirinti della boscaglia, di rimanere vittime dei predatori. Rimedio a tutto ciò è stato quello di dipendere sempre più dalla protezione e dall’istruzione fornite dalla madre e dal gruppo di appartenenza. Tale rimedio ha avuto come conseguenza l’allungamento dell’infanzia e un affinamento del modo e dei mezzi del comunicare tra i membri del gruppo. Comunicare e apprendere richiedono sì un aumento delle dimensioni del cervello, ma anche modifiche al suo interno dei collegamenti per cui l’informazione da elaborare viene trasferita, poniamo, dai centri visivi ai centri auditivi, o viceversa, e poi a quelli motori. Si può proporre, per quelle remote e mal documentate vicende, un quadro migliore o del tutto diverso, rimane però sempre fermo che bisogna pensare alla comparsa di una spirale (retroazione positiva) per cui, a mano a mano che cresceva il bisogno di comunicare e apprendere, aumentava e si ristrutturava la massa del cervello, e più questa massa si accresceva –con conseguente riduzione dell’innato- aumentava il bisogno di comunicare e apprendere. Questo è un processo con andamento non dissimile da quello il cui risultato si sperimenta nel divenire adulti: le nostre risorse e la nostra sopravvivenza stessa dipendono sempre più da ciò che abbiamo appreso, dal nostro repertorio di esperienze vissute e sempre meno dal patrimonio che abbiamo ereditato per via genetica. Non potendo osservare il comportamento degli antichi Ominidi, possiamo però ipotizzare che l’evoluzione del comportamento possa essere dedotta dallo studio dell’uomo moderno. Così vediamo che dobbiamo distinguere le attitudini a realizzare delle funzioni cerebrali e la realizzazione delle medesime. Le prime derivano dal patrimonio ereditario, le seconde dall’uso delle aree cerebrali e quindi dal processo di apprendimento. Questa distinzione permette di comprendere l’enorme accelerazione nell’evoluzione e anche dell’arricchimento del comportamento umano. In molti recenti casi l’evoluzione comportamentale dell’uomo si è arrestata alla prima fase, a quella di fissare le condizioni per l’apprendimento di attitudini che presso altre specie di primati si fissano in modo ereditario. L’uomo impara a vedere, impara a comunicare e questo apprendimento ha i suoi momenti propizi che può coincidere con quello che segue la nascita, la condizione di neonato, l’infanzia, la pubertà. Se non si impara a vedere nei primissimi anni di vita non si impara alcun uso efficiente della vista. E’ stata una grande sorpresa quando nel Settecento si diffuse la pratica di operare la cataratta congenita, quanto poco l’operazione giovasse ai pazienti adolescenti o adulti in confronto ai bambini. E’ stata una amara sorpresa costatare che degli infanti sopravvissuti, perché adottati da animali diversi, quali i lupi, non imparano a parlare se rientrano nella comunità umana dopo gli 8-10 anni. Anche bambini recuperati in modo analogo non imparano a camminare. Sorpresa minore ha destato il fatto che in età senile si impara a leggere e a scrivere con estrema difficoltà. Parallelamente, quanto più precocemente si praticano certi sport (comprese le competizioni in moto o in automobile da corsa) tanto più facilmente si diventa campioni. L’apprendimento è una facoltà chiave per ogni essere umano, ma ogni cosa ha il suo tempo. Un proverbio così recita: “Cane vecchio non impara nuovi giochi”. Ciò è vero anche per la specie umana. |
Lo sguardo |
Homo erectus e la sua culturaTutti i cuccioli dei mammiferi giocano e i giochi sono per lo più attività motorie che imitano fasi di comportamento aggressivo o difensivo proprio della specie. Attraverso il gioco viene messo a punto il coordinamento neuro-muscolare che diverrà utile quando i giovani individui dovranno affrontare i rischi che comporta l'età adulta; in particolare sfuggire ai predatori e affrontare le prede, competere per il partner sessuale. Va aggiunto che il gioco ha anche un effetto su un eventuale osservatore che partecipa emotivamente ad esso memorizzando tecniche e strategie e intervenendo minutamente e mimeticamente con sconfitte e successi. Il gioco è ed è sempre stato appannaggio di tutte le fasi dell'evoluzione umana, in cui i cuccioli nei loro giochi mimano e rivivono eventi che ormai non avranno più occasione, ma che partecipano da osservatori al lavoro dell'adulto che a loro cercherà di eseguire una volta diverranno adulti. Presso la nostra specie compaiono alcune varianti del gioco universalmente diffuso: la danza che rievoca episodi della vita di caccia e dell'attività sessuale presso gli adulti, e la musica. Fare musica, cantare e suonare strumenti a fiato o a percussione, flauti e tamburi, appaiono come attività gratuite prive di valore pratico. Flauti con fori opportunamente distanziati per suoni tra loro ̔accordatiʼ sono noti per culture da tempo estinte, realizzati con ossa di orso o di uccelli sono stati rinvenuti presso resti umani del Paleolitico. Va notato che questo strumento è formato da una decina di unità scelte una per una affinché l'insieme risulti accordato secondo regole matematiche. C'è a questo proposito una singolare coincidenza: nei Paesi Baschi si usa appendere a un ramo alcune grosse pietre scelte perché queste, quando vengono percosse, emettono suoni di altezza gradevolmente accordata. Simile strumento sembra avere origini assai remote. Lo sbarco cruento delle truppe alleate in Normandia, durante la seconda guerra mondiale, è avvenuto al suono delle cornamuse scozzesi, suono incoraggiante per i commilitoni, terribile per gli avversari, secondo un rituale antico quanto l'uomo stesso. Suonare uno strumento in varie lingue suona come 'giocare'. Differente rilievo è dato a disegnare o dipingere o 'graffire' su superfici lisce, che nei luoghi meno accessibili, nei deserti più inclementi, documentano il passaggio o la dimora dell'uomo preistorico. Gli indigeni australiani, o aborigeni, di cultura riferibile al paleolitico sanno eseguire disegni decorativi meravigliosi all'occhio dell'uomo moderno, realizzati anche con sabbie policrome. Torniamo alle ossa fossili. Homo erectus aveva la struttura corporea dell’uomo moderno, ma l’architettura del capo evolveva in maniera diversa. Una robusta visiera cava sormontava gli occhi, la fronte era sfuggente, il prognatismo rimaneva forte. I reperti portati alla luce dagli antropologi ci dicono che viveva in bivacchi o in caverne, usava il fuoco e fabbricava strumenti di pietra. Non ci possono dire se intrecciava fibre vegetali per fare funi, canestri e stuoie, se conciava le pelli, se fabbricava capanne e zattere, poiché sono tutti materiali che non si conservano. Di solito non è opportuno prendere in considerazione le attività non documentate dei nostri antenati ma che possono essere state parte importante di una cultura intesa come somma di conoscenze e strumenti che permettono a una popolazione di progredire, sopravvivere e di non scomparire. Dopo la sua comparsa Homo erectus ha potuto spingersi verso l’oriente attraversando ampi bracci di mare e grandi fiumi ed è tornato a vivere nella foresta pluviale abbandonata da lungo tempo. Trascurando questi accadimenti si giunge a negare che Homo erectus godesse dei doni della parola e della coscienza che si usa concedere solo ad Homo sapiens, ma molte circostanze grandi e piccole ci persuadono che questa sottovalutazione possa essere un errore. Homo erectus domina la scena per circa due milioni di anni. La transizione all’uomo moderno, Homo sapiens, è controversa e certamente ha avuto andamento diverso a seconda dei luoghi. In larga misura è avvenuta tra la I e la II epoca interglaciale. Per saperne di più
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Il gioco Un flauto Crani di H. erectus |
Indice del capitolo |
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Da Ramapithecus ad Australopithecus |
Homo sapiens: l'uomo moderno |
Indice opera |