A proposito della difesa di gruppo,
c’è da chiedersi se i più antichi ominidi avessero cervello sufficientemente
sviluppato da consentire comunicazioni tra individui e una vita sociale, sia
pure molto elementare. In via teorica non vi è alcuna difficoltà a rispondere di
sì: infatti tutte le specie di canidi vivono in branchi organizzati in modo
efficiente e sono in condizione di portare a termine programmi di caccia e di
trasferimento abbastanza complessi, pur avendo un cervello non più voluminoso di
quello di un babbuino. Un cervello di simili dimensioni conferisce ai cani una
buona capacità di apprendimento e consente al singolo individuo di vedere se
stesso come uno tra i vari membri del branco. E’ questa una rudimentale forma di
autocoscienza, grazie alla quale l’individuo accetta divieti ed è disposto ad
assumere un qualche ruolo specifico in seno alla comunità: esploratore, custode
o altro.
Per tali particolarità il cane è oggi un apprezzato compagno dell’uomo e in
passato bande di uomini e branchi di cani strutturati in modo analogo, hanno
cooperato integrando in azioni comuni le rispettive facoltà.
Il confronto tra le comunità dei cani e quelle degli ominidi non è però del
tutto calzante, in quanto presso questi ultimi all’impalcatura sociale
probabilmente si sovrapponeva, come ancor oggi si sovrappone, un’impalcatura
familiare.
Per dare maggiore concretezza a questo punto di vista conviene prendere in
considerazione comparativamente il dimorfismo sessuale.
Presso gli animali superiori le peculiarità dei due sessi, che costituiscono il
dimorfismo sessuale, hanno – e rivelano – tre diverse funzioni.
Per quanto riguarda il primo punto, i mammiferi di
regola impiegano, come richiamo sessuale, speciali odori, talvolta accompagnati
da voci; però, presso le specie che hanno poco o niente olfatto, i sessi si
richiamano o con suoni, come fanno i cetacei e molte scimmie platirrine, o con
colori e forme speciali, congiunti talvolta a voci, come fanno i cercopitecoidei
e gli ominoidei. Presso quest’ultima superfamiglia si danno i casi seguenti: la
femmina dello scimpanzé, più piccola del maschio (57 kg in media contro 68 del
maschio) rivela attraverso la pelle del deretano, turgida e rossa, il proprio
sesso e la propria disponibilità all’accoppiamento; tra i gorilla é il maschio
che si fa riconoscere per la taglia molto più grande e il particolare aspetto
del capo, e altrettanto vale per l’orango. In questi animali, che di solito
vivono gregari, i sessi non si richiamano a distanza.
Nella specie umana richiami femminili universalmente validi sono l’andatura e le
mammelle. Presso talune popolazioni
hanno un ruolo di richiamo la capigliatura e la barba. Non esiste alcun segnale
che riguardi la recettività della femmina, poiché essa è recettiva a prescindere
dal ciclo sessuale e anche durante la gravidanza. Questa particolarità,
condivisa dal solo scimpanzé
‘bonobo’ nell’intera classe dei mammiferi, viene giustamente considerata da
molti studiosi un importante fattore di coesione familiare. L’altezza della voce
femminile, essendo anche una caratteristica infantile, sembra avere la funzione
di ridurre l’aggressività maschile, piuttosto che la funzione di richiamo
sessuale.
Per quanto riguarda il secondo punto, si nota che
la svasatura e l’ampiezza del bacino muliebre hanno ovvio rapporto con la
gravidanza e con il parto.
Per quanto riguarda il terzo punto, minore statura
e minore sviluppo della muscolatura (e corrispondente minore asperità dei
rilievi dello scheletro della donna) ci appaiono come retaggio del diverso ruolo
svolto dai due sessi nelle antiche comunità: il maschio, più grosso, più
“spendibile”, occupato nel più oneroso e rischioso lavoro della caccia; la
femmina, piuttosto sedentaria, che non compie sforzi intensi e prolungati ed ha
metabolismo ridotto di tipo conservativo.
Insomma, i più rilevanti aspetti del dimorfismo sessuale umano sono il
risultato, fissatosi attraverso i processi evolutivi, di una speciale
collocazione dell’uno e dell’altro sesso in seno all’ambiente naturale, in seno
alla primitiva compagine sociale, in seno alla ‘famiglia’.
Ciò è vero anche per un’altra caratteristica muliebre, la menopausa, per cui la
donna diviene sterile per quasi metà della sua vita adulta. Una simile
caratteristica può essersi fissata nel corso dell’evoluzione solo a condizione
che vi fosse una forte interazione mutualistica tra i membri della comunità. Il
mutuo appoggio fa sì che le femmine durante il loro periodo sterile
contribuiscano a incrementare la nuova generazione ben più che se continuassero
a partorire figli (agli ultimi dei quali non potrebbero accudire) fino alle
soglie della vecchiezza; cosa che, invece, avviene per tutti i mammiferi,
compresi gli antropomorfi.
La parziale sterilità femminile nella specie umana trova il suo analogo nelle
caste sterili degli insetti sociali (formiche, api e termiti) e per fissarsi ha
necessariamente richiesto un processo evolutivo assai lungo, il che testimonia
che gli ominidi sono organizzati da tempi antichissimi in comunità in
competizione (non necessariamente cruenta) sia tra di loro sia con le condizioni
ostili dell’ambiente.
Considerazione particolare merita anche la questione della prolificità cui si è
già fatto cenno. Presso i pongidi la prolificità è bassa: un figlio ogni 4-5
anni, lungo un arco di vita riproduttiva di 15-20 anni, per un totale di 5-6
figli, con basse probabilità di sopravvivenza dell’ultimo nato. Pur avendo
un’attività riproduttiva poco più lunga, la donna ha prolificità più che
doppia: una dozzina di figli, con la possibilità di rapido rimpiazzo in caso di
morte dell’infante e con elevate probabilità di sopravvivenza dell’ultimo nato.
La differenza di strategia riproduttiva è cospicua: tanto cospicua che non può
non aver influito sulla evoluzione del ceppo.