La transizione al genere Homo
All’inizio del Pleistocene, attorno a due milioni di anni fa o poco più, hanno
vissuto in Africa orientale, e poi altrove, ominidi alquanto diversi dagli
Australopitecini.
Questi ominidi non differiscono dai loro precursori per la struttura del corpo e
degli arti, ma per la forma e l’aspetto del loro capo che presenta un cospicuo
aumento della capacità cranica e quindi un aumento del volume del cervello, una
riduzione delle dimensioni dei denti e dello spessore dello smalto, e quindi una
riduzione delle mascelle del prognatismo. La statura e la massa corporea
aumentano.
Tali modifiche sono correlate a un progresso della lavorazione della pietra,
all’uso del fuoco, e, probabilmente, al nutrirsi meno di carogne e più di prede
cacciate attivamente. In ogni caso, è da credere che il modo di vivere di questi
nostri antenati permettesse allora una dieta più ricca e variata preludio a una
spettacolare crescita demografica e alla migrazione in luoghi diversi e lontani.
In base ai loro resti fossili i
paleoantropologi hanno descritto un certo numero di specie, anzi, un ‘cespuglio’
di specie che sono state attribuite o dubitativamente o sicuramente al genere
Homo. Alcuni nomi dati a queste specie sono indicativi: Homo faber,
cioè uomo artefice; Homo ergaster, cioè uomo lavoratore;
Homo erectus ,
cioè uomo a stazione eretta
La specie degli ominidi
A questo punto è opportuno aprire una parentesi per chiarire l’uso del termine
specie in antropologia. Gli zoologi e i botanici ammettono che la comparsa di
una nuova specie sia legata all’insorgere di una ‘barriera
riproduttiva’ per cui la popolazione che ha seguito un percorso evolutivo
divergente da quello delle popolazioni ‘sorelle’ si trovi riproduttivamente
isolata e possa così conservare intatte le novità morfologiche, fisiologiche o
comportamentali che ha acquisito. La natura della barriera riproduttiva è di
natura varia, può avere basi citologiche, morfologiche o comportamentali, ma ciò
non è rilevante.
Per i paleontologi che assistono alla comparsa di novità importanti, qual è,
poniamo, l’aumento della capacità cranica, risulta ovviamente impossibile
verificare se tra due popolazioni, delle quali considerano i resti incompleti,
sia insorta una barriera riproduttiva.
Per questo motivo essi hanno giudicato la comparsa di specie nuove per analogia.
In un solo caso fortunato sono stati aiutati dallo studio del DNA residuato
nelle ossa ed hanno raggiunto risultati eccellenti ma non incontestabili.
Avviene infatti che quando i ricercatori disseppeliscono i resti fossili, anche
se questi si succedono in giacimenti regolarmente disposti, gli strati ‘fertili’
siano intervallati da migliaia di anni. Attimi nella scala geologica, tuttavia
sufficienti perché una popolazioni mobile su terreni d’ogni tipo abbia migrato
in terre lontane, magari per tornare, e sia stata sostituita dopo molte
generazioni da un’altra popolazione di provenienza diversa e poco imparentata
con la prima. Ciò che il paleontologo porta alla luce sono i nodi di una rete dalle
molte dimensioni, solo in casi molto fortunati la serie dei nodi corrisponde a
una diretta continuità genetica.
L'espansione degli Ominidi
Gli Australopiteci hanno popolato – per quanto oggi risulta- la metà occidentale
dell’Africa subsahariana, dal lago Ciad fino al Transvaal. Homo ergaster
e Homo erectus (fig.), non sempre distinguibili, si sono spinti molto oltre.
Hanno raggiunto l’Africa settentrionale – il Maghreb è ricco di testimonianze- e
di lì, seguendo in certo modo l’itinerario dei Ramapitecini, hanno raggiunto il
Caucaso e l’Indocina e di lì l’Indonesia e la Cina centrale. Non lontano
dall’attuale Pechino hanno dimorato nelle grotte del Chu Ku Tien durante circa
duecentomila anni, fino a mezzo milione di anni fa.
Dall’Africa Homo erectus (il pitecantropo) ha portato con
sé l’industria
acheuleana, l’uso del fuoco e l’abilità di cacciatore e, presumibilmente, una
più efficiente organizzazione sociale.
La crescita delle dimensioni del
cervello
L’aumento di dimensioni del
cervello degli australopiteci è iniziato intorno a due milioni e mezzo di anni
fa e in questo lasso di tempo la massa di quest’organo si è triplicata. Il
fenomeno per la sua rapidità e portata non trova confronti nel regno animale e
il risultato sembra sia andato molto oltre le usuali necessità di una specie di
primati. Diviene perciò interessante trovarne le cause. A tal fine la strada
migliore è quella di tentare la ricostruzione dello scenario nel quale vivevano
quelle antiche popolazioni e di considerare quali necessità esse dovevano
fronteggiare
La scenario
E’ stato più volte e giustamente ripetuto che condurre vita gregaria fu
necessario ai più antichi ominidi tornati a vivere al suolo per meglio
difendersi e procurarsi il cibo. Simile stile di vita rese necessaria la
divisione dei compiti e il comunicare con gli altri componenti del gruppo.
Comunicare non vuol dire solo conversare, vuol dire servirsi di un repertorio di
segnali che possono essere suoni più o meno articolati, ma anche gesti ed
espressioni che coinvolgono i muscoli mimici del viso.
I pongidi hanno un ricco repertorio mimico, ma gli uomini, spesso senza esserne
consapevoli, l’hanno ancora più ricco, soprattutto nel gioco degli sguardi. Le
palpebre dell’uomo hanno un disegno tale da lasciare scoperta una parte della
sclera che è bianca, sì che la direzione dello sguardo viene prontamente
individuata anche a distanza e nella penombra. L’intesa che nasce dallo scambio
di sguardi è confermata dal sorriso che scopre il luccicare dei denti e risulta
decisiva nell’eseguire un compito collettivo, anche molto complesso, A tutti è
noto il disagio che nasce dal trattare con chi ha la rima palpebrale tanto
ristretta da nascondere l’esatta posizione dell’iride e della pupilla, e dal
trattare con chi nasconde gli occhi dietro lenti scure.
Questo modo di comunicare, o un altro
equivalente, non richiese presumibilmente uno sviluppo del cervello, ma
contribuì di certo a ridurre la quota di comportamento istintivo e ad accrescere
la quota di comportamento acquisito attraverso l’esperienza e meglio aderente
alle particolari contingenze, e anche ad accrescere la capacità di memoria,
poiché apprendere vuol dire ricordare. In questo caso il sistema nervoso è
coinvolto in modo impegnativo
Cervello e comportamento
Nella cooperazione episodi del genere si sono ripetuti innumerevoli volte e
altrettante volte il comportamento stereotipo ereditario –che non di rado è
disgregante della comunità- ha ceduto di fronte al più efficiente comportamento
governato dall’apprendimento.
Nei casi in cui in una comunità occorre raggiungere un’intesa preventiva, quando
bisogna progettare in anticipo un’impresa comune, allora la mimica diviene
presto inadeguata: occorre un ‘linguaggio simbolico’ di un qualche tipo.
L’invenzione di questo linguaggio ha costituito un progresso molto grande,
dipeso –bisogna credere- non dalla illuminazione improvvisa di una grande mente,
ma formatosi lentamente sotto la spinta dei bisogni quotidiani.
Infatti la riduzione dei timori e delle paure istintive ha accresciuto i rischi
per i ‘cuccioli’ di cadere dall’alto, di annegare, di smarrirsi nei labirinti
della boscaglia, di rimanere vittime dei predatori. Rimedio a tutto ciò è stato
quello di dipendere sempre più dalla protezione e dall’istruzione fornite dalla
madre e dal gruppo di appartenenza. Tale rimedio ha avuto come conseguenza
l’allungamento dell’infanzia e un affinamento del modo e dei mezzi del
comunicare tra i membri del gruppo.
Comunicare e apprendere richiedono sì un aumento delle dimensioni del cervello,
ma anche modifiche al suo interno dei collegamenti per cui l’informazione da
elaborare viene trasferita, poniamo, dai centri visivi ai centri auditivi, o
viceversa, e poi a quelli motori.
Si può proporre, per quelle remote e mal documentate vicende, un quadro migliore
o del tutto diverso, rimane però sempre fermo che bisogna pensare alla comparsa
di una spirale (retroazione
positiva) per cui, a mano a mano che cresceva il bisogno di comunicare e
apprendere, aumentava e si ristrutturava la massa del cervello, e più questa
massa si accresceva –con conseguente riduzione dell’innato- aumentava il bisogno
di comunicare e apprendere...
Un processo con andamento non dissimile da quello il cui risultato si sperimenta
nel divenire adulti: le nostre risorse e la nostra sopravvivenza stessa
dipendono sempre più da ciò che abbiamo appreso, dal nostro repertorio di
esperienze vissute e sempre meno dal patrimonio che abbiamo ereditato per via
genetica.