L'evoluzione dei parassiti e le attitudini degli ominidi
L’evoluzione di un parassita è sempre più lenta dell’evoluzione dell’ospite,
poiché esso gode di un ambiente molto più stabile. Per tal motivo la presenza
del medesimo organismo infestante su due specie animali diverse suggerisce che
queste siano parenti e fornisce altre informazioni interessanti.
I pidocchi che infestano la
superfamiglia degli Hominoidea, ad esempio, appartengono ai Pediculidae,
famiglia che non sfrutta alcun altro mammifero. In particolare, il genere
Pediculus è parassita dello scimpanzé (P. schefferi, con due
varietà) e dell’uomo (P. hominis, anch’esso con due varietà); il genere
Phthirius inoltre è parassita del gorilla (Ph. gorillae) e dell’uomo
(Ph. pubis, volgarmente detto piattola).
Taluni parassiti sono legati alla dieta; le grosse tenie adulte, ad esempio,
parassitano solo mammiferi a dieta carnea. Ebbene, la
Taenia solium circola tra
uomo e maiale, e non tra altre specie, e il Taeniarhincus saginatus
circola tra uomo e bovini (sensu lato) e non è noto in alcun carnivoro
all’infuori dell’uomo. Per quanto detto sopra, l’avere in esclusiva queste due
specie di tenie testimonia in modo certo che l’uomo è, fin da epoche
remotissime, un carnivoro; testimonia anche che i suoi antenati si cibavano di
suini e di bovini da data altrettanto antica, data compatibile con la comparsa
dei primi australopitecini.
Va notato
ancora che nessuna scimmia viene durevolmente attaccata dalle pulci, per il
semplice fatto che le larve di questi fastidiosi insetti si sviluppano in mezzo
al terriccio, soprattutto entro le tane, mentre le scimmie o dimorano sugli
alberi o, se dimorano al suolo, hanno costumi nomadi. Ebbene, ancora una volta
l’uomo fa eccezione e, unico tra i primati, ha in esclusiva una specie di pulce
– chiamata Pulex irritans – parente delle pulci dei roditori, ma
attribuita a un genere diverso. Ciò è sicura testimonianza della remotissima
abitudine dei nostri antenati a vivere in bivacchi o in ricoveri stabili.
Tutta questa
serie di elementi convince che i primi ominidi, spinti dalle circostanze a
vivere al suolo, si adattarono subito a nutrirsi di carne, oltre che di frutta,
radici e semi. Una dieta ricca di carne non implica necessariamente esser
cacciatori o predatori (anche se questo sarebbe divenuto poi lo stile dei loro
discendenti): può voler dire cibarsi di animali morti per accidente o dei resti
di quelli uccisi dai grossi carnivori. La presunzione che i nostri più antichi
antenati si nutrissero come gli sciacalli o i maiali non è lusinghiera, ma trova
appoggio nel fatto che l’ascaride dell’uomo (Ascaris
lumbricoides) è specie gemella dell’ascaride del maiale (Ascaris suum).
Del resto, secondo Isaac, anche i primi rappresentanti del genere Homo,
molto più vicini a noi nel tempo, dipendevano in parte da una dieta di carogne:
i paleoantropologi hanno individuato un sito africano dove essi hanno macellato
un ippopotamo morto per un incidente e un sito in Spagna dove hanno macellato un
elefante imprigionato nelle sabbie mobili, servendosi, naturalmente, di attrezzi
di pietra lavorata.
La difesa di gruppo
Intorno alla metà del Settecento gli studiosi hanno iniziato a pensare che
l’uomo potesse avere origini belluine e si sono subito chiesti: in qual modo un
animale lento nella fuga ed inerme – privo cioè di artigli di denti aguzzi, di
corna e di pesanti zoccoli – in qual modo ha potuto cavarsela nella competizione
con le terribili bestie feroci che infestavano i luoghi in cui viveva?
Oggi sappiamo per certo che da due a quattro milioni di anni fa gli inermi
australopitecini convivevano nelle savane e nelle boscaglie dell’Africa con
iene, leopardi, leoni e con tigri dai denti a sciabola. Ma sappiano anche per
certo che i carnivori non sono creature dotate di insaziabile ferocia e pronte
ad uccidere tutto ciò che di vivente e di commestibile ad essi si presenti. Essi
usano andare a caccia di prede che conoscono per diretta esperienza e per
abbattere le quali dispongono di tattiche sicure e collaudate. E’ un fatto, che
per un predatore uscire da un conflitto azzoppato o orbo di un occhio non vale
alcun pasto, per succulento che sia, poiché un trauma anche non grave è spesso
preludio a infezioni e lungo debilitante digiuno.
L’australopiteco, fin dalla sua comparsa, doveva apparire una preda poco
prevedibile, e quindi poco appetibile, che poteva difendersi con morsi
terribili, mentre altri membri del branco potevano ferire con armi ‘nuove’ quali
i bastoni e i sassi.
In appoggio a questa ricostruzione, testimonia il fatto che quegli antichi
ominidi hanno evoluto un dispositivo che annunciava a distanza la loro presenza
e il loro arrivo. Sotto le ascelle e intorno all’ano sono comparse ghiandole dal
secreto odoroso ed in questi luoghi – di regola glabri nei mammiferi – sono
spuntati ciuffi di peli che provvedono a spanderne l’odore.
Tale evento evolutivo non può essere negato, anche se il suo ruolo non è
documentato, si può tuttavia citare il fatto che né un giaguaro né una leonessa
osa attaccare un gruppo di uomini, ma attende che un individuo, per stanchezza o
per malattia, resti indietro isolato, per farne bottino.
Per concludere, si può dire che fin dalle origini la deambulazione bipede, che
lascia libere mani e braccia, insieme all’uso di armi improvvisate e alla vita
gregaria hanno permesso ai primi ominidi di cavarsela in un ambiente ricco di
pericoli. In ogni caso, le perdite inevitabili di giovani individui potevano
essere compensate dalla elevata prolificità delle femmine. Ancor oggi la
prolificità (potenziale) della donna risulta più che doppia della prolificità
delle femmine dei pongidi, nonostante che la vita fertile della donna duri meno
della metà dell’arco della sua vita adulta (potenziale).
Tale
circostanza è stata una preziosa difesa che ha avuto ripercussioni di altissimo
rilievo, anche negativo, lungo le duecentomila generazioni dei precursori
dell’umanità attuale.