La comparsa del più antico rappresentante di questa sottofamiglia sinora
ritrovato rimonta a circa sei milioni di anni fa, all’inizio del Messiniano,
ultimo e travagliato stadio del Miocene che ha visto l’essiccamento del
Mediterraneo, il passaggio di molte specie dall’Africa verso l’Asia e l’Europa,
le ultime fasi della formazione delle Alpi, nonché il riassestamento faunistico
conseguente alla spaccatura tettonica che dalla valle del Giordano giunge al
lago Niassa nella Rift Valley.
Questo antico australopitecino è stato chiamato dagli scopritori (Brigitte Senut
e Martin Pickford) Orrorin tugenensis. Lo si situa sulla diretta
ascendenza della nostra specie.
Più recente (4.4 milioni di anni fa) è Australopithecus ramidus,
anch’esso bipede, dalla potente dentatura protetta da uno spesso strato di
smalto.
Molto meglio conosciute le forme
vissute 4 milioni di anni fa, o meno. Quelle rinvenute in Africa meridionale
vengono attribuite ad Australopithecus africanus e ad A. robustus,
quelle rinvenute più a Nord, nell’Africa orientale, che sono meno recenti,
vengono attribuite ad A. afarensis. L’esemplare di australopiteco
sudafricano più completo è noto come ‘Little foot’, piedino; quello di
A. afarensis è la celebre ‘Lucy’.
Struttura fisica degli
Austrolepiteci
Gli Australopitecini
(fig)
avevano statura modesta, da un metro o poco più, fino a un metro e trenta le
forme gracili, da un metro e trenta a un metro e cinquanta o poco più le forme
robuste.
Lo scheletro del tronco e degli arti inferiori (fig.) era eguale a quello dell’uomo
moderno, ma le braccia erano in proporzione un po’ più lunghe; il bacino
femminile era leggermente diverso e si presume che il parto avvenisse con
modalità alquanto diverse.
L’andatura di questi ominidi era eguale alla nostra, cosa che ci è testimoniata
dallo scheletro (fig.), ma anche dalle tracce lasciate da tre individui che camminavano
su uno strato di cenere vulcanica dopo un acquazzone (fig.).
La cenere si è poi indurita come fa il cemento e le impronte sono state
conservate fino ad ora. La ‘passeggiata’ avveniva più di tre milioni e mezzo di
anni fa ed era piuttosto una fuga dopo le eruzioni di un vicino vulcano. Un
individuo di corporatura maggiore procedeva con un individuo più piccolo a
fianco, mentre un terzo individuo anch’esso piccolo camminava mettendo i piedi
nelle impronte lasciate dall’esemplare più grosso.
Possiamo immaginare una famigliola con i genitori che procedono affiancati,
tenendosi forse per mano, mentre il ragazzino meno emozionato per l’accaduto li
segue giocosamente. Tutti e tre del tutto ignari che la loro vicenda sarebbe
stata ricostruita dopo milioni di anni e che le orme dei loro passi,
attraversate da quelle di un’antilope e di un cavallo primitivo, avrebbero
destato molta emozione presso i loro discendenti, 180 mila generazioni dopo.
Se il tronco e gli arti degli australopiteci erano eguali ai nostri, il capo era
molto diverso: la scatola cranica (neurocranio) aveva la stessa capacità di
quella di uno scimpanzé (fig.); bassa e larga, aveva
il foro occipitale spostato all’indietro rispetto all’uomo moderno e la nuca,
molto larga alla base, portava l’impronta dell’attacco dei tendini di una
muscolatura eccezionalmente potente (fig.).
L’apofisi mastoidea (quella sporgenza che segue il meato auditivo) era ridotta
e, sull’avanti, in corrispondenza delle arcate zigomatiche la scatola cranica si
restringeva (fig.) per poi allargarsi di nuovo nelle potenti arcate sopraorbitarie (fig). Negli individui più grossi e robusti (designati come Australopithecus
robustus e A. boisei) al centro del capo, là dove si incontrano le
ossa parietali, sporgeva una cresta ossea sagittale dove si andavano ad
attaccare i muscoli temporali; questa cresta corrisponde a quella che si osserva
sul cranio dei gorilla maschi, ma ha dimensioni minori.
La faccia (splancnocranio) mostrava zigomi prominenti e larghi là dove l’arcata
zigomatica si attacca sotto le orbite; essi delimitavano un ampio spazio ovale
in corrispondenza delle ossa mascellari; entro questo spazio scorrevano i
potenti muscoli temporali e masseteri. La mascella e la mandibola sporgevano
verso l’avanti, armate di molari e premolari massicci con la superficie
triturante più che tripla rispetto a quella dell’uomo moderno (che ha taglia
molto più grande) protetta da uno strato di smalto di straordinario spessore (ma
le popolazioni più antiche avevano smalto sottile paragonabile a quello dei
Pongidi attuali). I canini avevano una grossa radice, ma la cuspide non sporgeva
oltre gli incisivi e i premolari, e quindi la dentatura era simile a quella
dell’uomo moderno, ma in scala maggiore.
Il ramo ascendente della mandibola era molto largo con una ampia superficie
articolare (condili) che combaciava con la fossa glenoidea della base del
cranio, mentre il ramo che porta i denti era molto più alto (o profondo se si
vuole), sicché i muscoli della masticazione oltre ad avere una sezione molto
grande erano anche molto lunghi; questa circostanza permetteva di spalancare la
bocca ben più di quanto possa fare l’uomo attuale.
Insomma, se lo incontrassimo oggi, l’australopiteco ci apparirebbe come un
robusto pigmeo villoso, munito di un capo simile a quello di un gorilla con
mandibola e mascella prognate, dentatura potente. L’australopiteco doveva essere
anche, come vedremo poi, molto maleodorante.
Come
si nutrivano?
L’enorme potenza dell’apparato masticatore, in Australopithecus boisei
almeno venti volte e forse cinquanta volte quella dell’uomo attuale, è stata
giustificata con l’ipotesi che quegli ominidi si nutrissero di granaglie molto
dure, ma sta di fatto che la savana e la boscaglia offrono assai poco cibo di
questo tipo e che chi se ne nutre deve anche saperlo conservare per il periodo
durante il quale esso non è disponibile, e questo non poteva essere il caso del
nostro primate.
I paleontologi sudafricani hanno suggerito che gli australopiteci si nutrissero
dei prodotti della caccia effettuata cooperativamente (i resti di alcune grosse
talpe dorate, che un uomo da solo non può catturare, erano associati ai primi
ritrovamenti di questi ominidi), ed anche degli avanzi delle prede dei grandi
carnivori coevi. Questa seconda congettura ha ricevuto conferma quando,
associate ad un australopiteco del gruppo afarensis denominato garhi
e datato a 2,5 ma, sono state trovate ossa di antilope spaccate con
l’ausilio di rudimentali strumenti di pietra allo scopo di cavarne il midollo.
Una indiretta conferma di questo tipo di nutrizione ci viene dallo
studio dei
parassiti intestinali dell’uomo.