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Le prime scoperte di resti fossili

I documenti sull’evoluzione dell’uomo sono stati portati alla luce in ordine inverso all’antichità dei resti.

Una prima scoperta è avvenuta nel Galles all’inizio dell’Ottocento: si trattava di resti che destarono molta curiosità negli scopritori poiché lo scheletro era tinto con ocra. Oggi quelle ossa vengono attribuite a Homo sapiens  del  Paleolitico superiore.

Cinque anni dopo sono state disseppellite in Belgio altre ossa che oggi vengono attribuite all’uomo di Neanderthal, tuttavia fossili più completi di questa sottospecie di Homo sapiens sono stati ritrovati solo nel 1856 a Neanderthal, appunto, villaggio non lontano da Düsseldorf.

Intorno a questo materiale scoppiò allora una vivace polemica tra coloro che credevano nella sua  antichità e quelli che lo attribuivano a un individuo anormale di epoca recente. Il celebre medico Rudolf Virchow con la sua grande autorità accreditò quest’ultima interpretazione.

Intanto l’interesse per la preistoria si era acceso sicché, quando nel 1866 e poi nel 1889 furono rinvenuti altri resti di questo tipo umano insieme a rinoceronti e mammuth, si dovette proprio credere all’esistenza di una forma arcaica di uomo.

Una successiva grande scoperta fu compiuta negli anni 1891 e 1892 dal medico olandese E. Dubois. Si era recato in Indonesia convinto che vi avrebbe trovato ‘l’anello mancante’ tra uomo e scimmia, ed a Giava trovò infatti una calotta cranica completa, piuttosto piccola e scimmiesca,  insieme ad un femore di tipo umano moderno e alcuni denti. Dubois attribuì questi resti a un Pithecanthropus erectus, utilizzando come nome generico un nome inventato dallo zoologo e teorico dell’evoluzione E. Haeckel.

Simile attribuzione scatenò una violenta opposizione anche da parte di chi credeva nell’evoluzione dell’uomo, poiché allora molti erano convinti che tutti i caratteri prettamente umani si fossero evoluti in modo graduale e sincrono. Quindi il cranio venne attribuito a un gibbone di grandezza inusitata,  e il femore a un  uomo moderno.

Dubois se ne persuase, o si rassegnò, e chiuse il materiale in un cassetto. Per alcuni decenni del pitecantropo non si parlò più.  

Un’ulteriore scoperta è stata compiuta dall’anatomista sudafricano Raymond Dart a Taung nel Bechuana. Si trattava del cranio di un bambino nel quale erano riconoscibili caratteristiche scimmiesche ed umane. Dart denominò questo fossile Australopithecus africanus, cioè ‘scimmia dell’emisfero australe,  africana’.

Differenza fra lo scheletro di scimpanzè e quello umano

Differenza nella muscolatura del cranio

Una volta di più il mondo accademico rifiutò di credere alla scoperta, criticò duramente Dart e attribuì il reperto a un pongide. Il mondo accademico dovette però ricredersi quando negli anni trenta dall’Oriente asiatico Franz Weidenreich e Otto von Koenigswald fecero conoscere nuove forme di ‘pitecantropi’ e R. Broom fornì altro materiale inequivocabile sugli Australopiteci. Nel secondo dopoguerra W.E. Le Gros Clark e i coniugi Leakey trovarono in Africa orientale altro ricco e più antico materiale che sedò le polemiche ed accese una volta di più l’interesse per le remote origini dell’umanità.

Nel frattempo i geofisici avevano messo a disposizione dei paleontologi il prezioso metodo della datazione dei giacimenti fossiliferi basato sull’impiego dei nuclidi derivanti dal decadimento degli isotopi radioattivi, e questo metodo ha permesso di mettere nella giusta sequenza cronologica i tanti, e spesso controversi,  ritrovamenti.

 

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