Oggi le terre coltivate coprono una superficie di circa 14 milioni di km (pari a 45 volte quella dell'Italia) e producono mediamente ogni anno circa 6.5 tonnellate per ettaro. Tale valore a confronto con la produttività delle formazioni vegetali
naturali appare piuttosto basso, ciò si giustifica col fatto che spesso queste terre sono a monocoltura e che tra un raccolto e l'altro esse rimangono improduttive.
Nell'agricoltura tradizionale l'uomo investiva la propria energia e quella degli animali domestici per orientare la produzione dell'ecosistema nel modo a lui più conveniente. Il rapporto tra energia ricavata dall'agricoltura ed energia spesa nel
coltivare era alquanto superiore a uno (talvolta decupla), sicché i popoli dediti all'agricoltura erano in condizione di investire la differenza in attività varie: costruzioni, artigianato, commercio. Se però a causa di un deterioramento del clima, o di un'eccessiva crescita demografica, detto rapporto cadeva al disotto dell'unità, le popolazioni erano obbligate a migrare verso luoghi più propizi.
Dopo la rivoluzione industriale le cose sono cambiate radicalmente: usando il carbon fossile prima e l'elettricità e il petrolio poi, l'agricoltore ha cominciato a investire nelle coltivazioni molta più energia di quanta ne può ricavare. Oggi
si giunge in molti casi ad investire più del decuplo del prodotto (misurato in calorie) in arature, sarchiature, concimazioni, disinfestazioni, diserbamento, irrigazione, cioè in attività che (salvo l'ultima) deteriorano più o meno gravemente l'ambiente circostante e distruggono il suolo stesso.
Finché c'è petrolio da bruciare...